Dall'epoca dei Carolingi in poi, in tutto il Sacro Romano Impero, iniziò una lenta trasformazione nella cultura della guerra. Questa trasformazione è stata molto spesso attribuita all'introduzione della staffa, innovazione attribuita da molti storici agli Avari, uno dei tanti Reitervolker (popoli a cavallo) che premeva dall'est attratto dagli agi e dalle ricchezze offerte dall'Impero.
Ma tale novità, da sola, non sarebbe sufficiente a giustificare quella rivoluzione che più che tecnica è da considerarsi sociale. Questo a giudicare dagli effetti che ne derivarono. Infatti la gerarchia feudale che si andava stratificando era non soltanto imposta dalla corona, ma derivava dalle esigenze maturate negli anni bui della invasioni barbariche. Così, la necessità di mantenere un gruppo di guerrieri addestrati a difendere la popolazione produttiva dal pericolo, e quella del Sovrano, di garantirsi l'esazione dei tributi e al tempo stesso un esercito che difendesse la corona dagli invasori esterni e dai sudditi, si tradussero nel vassallaggio. Un regime socioeconomico con cui l'Imperatore assegnava un territorio ad ogni guerriero che in cambio di fedeltà in guerra, ne avrebbe amministrato sia la giustizia che i proventi. Potendo così egli stesso provvedere al proprio armamento. Gli altri strati sociali avrebbero invece contribuito con il lavoro all'economia collettiva, e quindi salvo casi eccezionali, non avrebbero dovuto abbandonare le terre ed il villaggio per partecipare agli eventi bellici.
Si veniva così a formare un'elite aristocratica di guerrieri, i miles, in un mondo di inermi (rusticus), o al più di pedes. È proprio questa distinzione in termini, a suggerire che alla fine del primo millennio, si considerasse armato solo chi combattesse a cavallo. Distinzione tanto più forte in termini economici, se si considera che all'epoca il costo del cavallo e dell'armamentario, era confrontabile con quello "del patrimonio bovino di un intero villaggio". La letteratura cavalleresca, le chanson, i sentimenti di fraternitas e le condizioni di status, esaltate per ovvi motivi di sangue, fecero il resto, tramandandoci fino ad oggi la figura del chavaliere. Una figura che in tutte le lingue occidentali, più che in italiano, è distinta anche nella nomenclatura contemporanea, dal semplice uomo a cavallo (cavaliere). Come si evince infatti dai termini inglesi knight-horseman, dal tedesco reiter- ritter, dallo spagnolo jinete-caballero, e dal francese cavalier-chevalier.
È intorno a questo guerriero ed ai soldatini da collezione che
ne riproducono le sue trasformazioni tipologiche, in particolare delle
armature, che si impernia il nostro viaggio nel medioevo. È opportuno
chiarire che questo certamente non vuole essere un trattato di storia militare,
ma l'occasione per mostrare quanto e cosa ci può essere dietro un
"ludico" collezionare, dipingere, quando non scolpire, soldatini
in piombo. Pertanto saranno bene accette segnalazioni, precisazioni ed
integrazioni, che potrete, anzi siete invitati, ad inviare al
nostro sito,
al fine di meglio integrare l'illustrazione dei modelli, e della nostra
"arte".
La nostra avventura inizia da uno straordinario reperto: l'arazzo di Bayeux. Un inestimabile documento, custodito da secoli nella abbazia della città omonima, che, come nei fotogrammi di una pellicola cinematografica lunga una cinquantina di metri, narra le vicende di quell'epica impresa dei Normanni, che fu la battaglia di Hastings. Dalla traversata della Manica alla vittoria finale, illustrandone il probabile armamento dei partecipanti.
Quello che si tenne ad Hastings il 14 ottobre 1066, fu uno degli scontri
decisivi per il corso della storia del mondo occidentale. A contendersi
il campo erano le truppe fedeli a Harold, Re d'Inghilterra, e quelle al
seguito del Duca di Normandia, Guglielmo, in seguito detto appunto "Il
Conquistatore". La Battaglia di Hastings divenne il primo passo verso
la conquista dell'Inghilterra da parte dei Normanni. Infatti nella battaglia,
caddero molti nobili anglosassoni, tra cui lo stesso Harold, ed al loro
posto si insediarono i vincitori di lingua francese. Nel corso della battaglia,
gli arcieri di Guglielmo giocarono un ruolo fondamentale insieme alla cavalleria.
Quest'ultima, divenne più celebre sia per il lignaggio dei suoi
componenti sia per la nuova tecnica di assalto di cui si avvaleva, basata
sull'uso della lancia imbracciata sotto l'ascella.
Il modello originale proposto (pittura e scultura dell'autore) riproduce uno degli arcieri al seguito di Guglielmo.
Queste fila, erano costituite da uomini di umili origini, forse marinai che avevano seguito l'armata in battaglia, il cui semplice abbigliamento, raramente era arricchito da un elmo o da un caschetto, che si ritiene fosse di cuoio o in tessuto imbottito. Spesso non erano nemmeno armati di spada, ma di un coltellaccio da caccia. Anche l'arco, che impiegarono con esiti micidiali, era in realtà un'arma da caccia, economico ma preciso, spesso utilizzato anche nelle battaglie navali. Non si trattava ancora di un arco lungo, ma secondo alcune fonti si ritiene che fosse in un sol pezzo (forse in acero o quercia), e di un'altezza approssimativamente pari alla distanza tra la testa e le ginocchia. Il loro abbigliamento era dunque basato su abiti civili, ma come tradizione vuole per gli uomini del nord, seppure in tessuti grezzi, erano talvolta arricchiti da decorazioni più o meno colorate, aggiunte per arricchire e personalizzare quello che probabilmente era il loro unico indumento.
Naturalmente nell'arazzo fu dato molto rilievo ai cavalieri, sia per la loro nobile origine, che per il loro aspetto tipico. Questi erano armati con un usbergo che proteggeva quasi tutto il corpo, al di sotto del quale vi era una veste o un'imbottitura per proteggere delle escursioni termiche e dalle abrasioni, l'immancabile spada ed uno scudo della caratteristica forma a mandorla.
Altra protezione era costituita da un elmo conico o ad ogiva, che secondo
alcuni era lavorato a spicchi, secondo altri imbutito in un sol pezzo,
e provvisto di una protezione nasale.
Il soldatino qui raffigurato, scolpito dalle abili mani di Adriano Laruccia, e dipinto dall'autore, presenta tutti gli elementi caratteristici che nel XI al XII secolo contraddistinguevano il miles di tutta l'Europa Occidentale. Eccetto che per alcuni elementi, che come si dirà, mutarono nel corso di questi anni, più nella forma che nella sostanza.
Il tipo presentato, sarebbe molto più emblematico se raffigurato a cavallo. Infatti ciò che rese celebre e praticamente invincibile il cavaliere, fu il suo pesante armamento associato alle sue cariche lanciate contro fanterie poco efficienti e disciplinate. Cariche condotte come si suole dire "lancia in resta", ovvero con la lancia imbracciata sotto l'ascella, una tecnica che unita all'uso della staffa ed a selle provviste di una sorta di schienale, puntava tutto sulla forza d'urto.
Ma più frequentemente lo scontro avveniva dunque frontalmente, tra due schiere di cavalieri, con l'obbiettivo minimo di disarcionare l'avversario. Ed è proprio nella successiva fase del combattimento a terra che si deve immaginare il cavaliere riprodotto. Il modello si presenta con un usbergo, un'evoluzione della brunia, un giaccone di stoffa o di cuoio coperto da scaglie o anelli di metallo che lo rinforzavano, cioè una maglia di ferro uniti tra loro e ribattuti. Questa cotta di maglia si presentava, nell'XI secolo, lunga fino al polpaccio, misura che nei secoli successivi si sarebbe via via accorciata fino all'inguine, ma completando le difese con gambali pure in maglia di ferro, guanti e cappuccio. Come già qui raffigurato.
Ovviamente è credibile, dato l'esorbitante costo, che nelle diverse epoche fossero contemporaneamente presenti diversi tipi di armi difensive ed offensive. Al di sotto di tali protezione le fonti iconografiche ci mostrano una lunga camicia che arrivava ai talloni provvista di spaccature che consentissero di montare. Associata alla camicia vi sarà spesso un'imbottita, o gambeson, avente la funzione di proteggere il guerriero sia dall'abrasione con gli anelli dell'usbergo, sia dagli sbalzi termici che erano esaltati dal metallo. L'elmo inizialmente conico, durante il XII secolo si modificò prima accentuandone la punta, poi addirittura arrotondandosi fino a divenire una cervelliera, pur sempre provvista di protezione nasale.
A completare l'armamento del cavaliere, c'erano una lunga lancia spesso fornita di pennoncello e il caratteristico lungo scudo a mandorla. Quest'ultimo inizialmente era ancora rinforzato dall'umbone centrale, una reminiscenza degli scudi gotici, e forse romani, che negli anni scomparì. La sua forma caratteristica era particolarmente efficiente nella protezione del lato sinistro del cavaliere durante le cariche, e ed era sostenuto anche sulle spalle da una lunga cinghia. Non è mai stato chiarito se lo scudo fosse costituito da più tavole affiancate e rinforzate in più strati, in uniche tavole in multistrato; mentre è acclarato che fossero decorati in sgargianti colori, da disegni geometrici o motivi simbolici (draghi a due zampe con code a spirale, o come nel caso dei crociati da croci).
Immancabile era la spada, lunga più di un metro, e forgiata in
starti diversi che ne aumentassero la durezza e la resilienza. Era il simbolo
stesso del cavaliere, che per mezzo di essa era nominato, e forse anche
per la caratteristica forma cruciforme che assumeva con l'impugnatura.
Il pomo, l'elsa e gli speroni, via via che lo status cavalleresco veniva
riconosciuto erano obbligatoriamente di colore dorato, e per questo simbolo
proprio del cavaliere. Così come pure le cinture, che nel tempo
per moda e per necessità si caricarono di decorazioni e di simbolismi.
Nello scorcio fra XII e XIII secolo, forse in seguito alle crociate ed alle influenze che ne conseguirono dall'Oriente, l'usbergo iniziava ad accorciarsi ed a coprirsi della sopravveste o cotta d'arme, indumento leggero e talvolta impreziosito da ricami o damascature. Lo scudo andò rimpicciolendosi e recando degli emblemi araldici, abbandonando la forma a mandorla e assumendo quella triangolare, che consentiva maggior agilità.
Tuttavia le protezioni non erano diminuite, ad esempio l'elmo andò aumentando la protezione del viso, prima ampliando il nasale a mò di T rovesciata, poi allargandosi in una maschera con feritoie che consentissero la vista e l'areazione, per divenire completamente chiusi.
È questo stato di transizione che si vuole documentare con la
panoplia di questo figurino che riproduce un cavaliere al seguito di Federico
II di Svevia, che a cavallo del 1200, nelle vesti di imperatore del Sacro
Romano Impero, dominava gran parte dell'Italia meridionale. Il soldatino
prodotto dalla ditta Berruto, reca appunto l'insegna imperiale, ed un elmo
con maschera spesso associato ai guerrieri di lingua tedesca. L'elmo veniva
portato al di sopra di un cappuccio in maglia di ferro (camaglio) a sua
volta indossato al di sopra di un caschetto di cuoio o cotone imbottito.
Durante il periodo delle crociate affluirono in Terra Santa e negli stati d'oltre mare (Outre Mer) moltissimi cavalieri. Si trattava prevalentemente di giovani nobili diseredati in cerca di gloria (l'unico erede della casata era il primogenito), con la speranza di guadagnarsi un titolo combattendo al servizio di Dio. Uno di questi fu Peter De Dreoux, che mori in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Al Mansoura, al seguito della Crociata di San Luigi.
Egli è raffigurato
in alcune fonti armato con una cotta di maglia di ferro completa di gambali,
un'imbottita di cuoio bollito e rinforzata con ginocchiere di ferro, un
elmo tipo chapel-de-fer, vestito con tunica azzurra
e sottoveste gialla frangiata alle maniche.
Il soldatino è ottenuto per elaborazione di un pezzo della ditta
Elite, scolpito da R.G. La Torre. L'araldica dello scudo è stata
tratta dall'emblema del pomo della spada ritrovato recentemente in un mercato
arabo, ed è costituita da uno scaccato di azzurro e di giallo con
il primo quarto caricato d'ermellino.
Il modello di serie scolpito da A. Laruccia per la Andrea, ritrae un cavaliere della seconda metà del XIII secolo, con elmo chiuso, camaglio e cotta in maglia di ferro, sopravveste recante l'effigie araldica, spada ed ascia. Lo scudo è già di dimensioni ridotte rispetto a quelli a mandorla di epoca normanna e tardonormanna, ed è portato con una tracolla dietro le spalle. Rappresenta Gualtieri d'Astinberg, il cavaliere tedesco che secondo le cronache del Villani, fu il primo feridore della Cavalleria Senese nella battaglia di Montaperti. Prima dell'inizio del combattimento, Arigho D'Astimbergh, zio del Gualtieri, rivendicò ai Capitani ghibellini il tradizionale privilegio concesso ormai da tempo alla sua famiglia, di infliggere il primo colpo agli avversari del Sacro Romano Impero. Si ritenne così di mantenere la tradizione, ma non appena fu fatta concessione, Gualtieri inginocchiato pregò lo zio di concedergli tale "onore". E così fu.
In realtà è addirittura dubbia la sua reale esistenza, nonostante sia rappresentato in diverse iconografie dell'epoca, che lo ritraggono recante le insegne dei Ghibellini, la Wouivre, femmina del drago alato, verde, in campo rosso. Egli rappresenta tuttavia l'importante ruolo svolto dalla cavalleria senese, sia nella carica iniziale contro i fanti fiorentini, sia nella risolutiva carica della retroguardia.
Ma non solo, il soldatino e l'evento in se,
ci consente ricorda delle trasformazioni anche sociali e del modo di guerreggiare
che avvennero nel XIII secolo. Le guerre infatti erano relativamente brevi,
stagionali al massimo, e in base alla fraternitas che univa i cavalieri
si ritiene fossero non molto cruente, e questo appunto sino a quando il
vassus prestasse l'auxilium militare al suo senior. Servizio che era raramente
superiore in durata ai quaranta giorni. Ma quando fu addirittura consentito
di esentarsi dal servizio pagando lo scutagium si aprì la via del
guerriero di professione a pagamento, il mercenario, che al soldo (da cui
il termine soldato) di questo o quel signore, o dell'altro comune, combattesse
per la durata della campagna. Campagna che, nella prassi più frequente,
si riduceva a scorrerie, saccheggi in campo avverso e qualche scaramuccia.
Prassi che consentiva di prolungare l'ingaggio diminuendo i rischi, salvaguardando
la merce offerta al Signore dal Capitano di Ventura di turno. E fu proprio
l'Italia il terreno più fertile di questa evoluzione, sia per ragioni
legate al numero delle tante Città Stato, sia per la crescente popolazione
borghese che grazie alle fortune accumulate con gli scambi con l'Oriente
era in grado di pagarsi la "cavallata". Termine appunto associato
al tipo di azione guerresca condotta da una "lancia", o gruppo
di cavalieri, a danno del contado avverso. E proprio in Italia si scontravano,
più per ragioni economiche che altro, le principali fazioni: Ghibelline,
tra cui Siena, parteggiante per l'Impero, e Guelfa, tra cui Firenze, per
il Papato.
È nel panorama delle guerre tra comuni, che si inserisce uno degli scontri più discussi della cultura medioevale toscana, quello di Campaldino, ricordato anche da Dante Alighieri nella "Commedia". Corso Donati, era il Capitano di Guerra della città di Pistoia all'epoca della Battaglia, città guelfa, alleata di Firenze contro la ghibellina Siena. Per questo il cavallo da lui montato, è raffigurato con la gualdrappa nei colori della città, scaccato di bianco e di rosso, mentre i suoi colori, troncato di bianco e di rosso, sono portati sullo scudo e sulla veste, come di consueto all'epoca, sia avanti che sul retro, proprio perché la funzione dell'araldica era quella di rendere riconoscibili i cavalieri durante le mischie della battaglia. Infatti negli scontri dell'epoca era d'uso calzare anche un elmo chiuso, di tipo "pentolare" come nel caso, che riduceva ulteriormente la possibilità di essere riconosciuti anche da vicino. Nelle cronache del tempo è descritto "bellissimo nel corpo"…. "un cavaliere delle sembianze di Catellina Romano, ma più crudele di questo"…
Da queste note se ne deduce che il ruolo a lui attribuito di Capitano della cavalleria posta in riserva "di costa", non gli fosse perfettamente calzante. Così contravvenendo all'ordine di proteggere la ritirata, lanciò i suoi cavalieri contro i fanti aretini intenti a vibrare il colpo finale alle fila guelfe, costringendoli alla rotta e ribaltando così un esito che pareva ormai segnato.
Non è un caso che si sottolinei la questione araldica. Infatti
durante il XIII secolo, questa usanza, soddisfaceva all'esigenza già
manifestatasi precedentemente di poter riconoscere i combattenti nella
mischia. Vieppiù quando l'elmo ne nascondeva completamente il volto.
L'araldica assunse valori simbolici sempre più importanti e complessi
con il progredire delle dinastie, e i simboli elementari assunti inizialmente
basati su disegni geometrici elementari o animali più o meno mitologici,
si complicarono in intrecci narranti non solo le gesta del cavaliere, ma
anche la sua origine e le unioni matrimoniali.
Castruccio Castracane degli Antelminelli, nato nel 1281 e morto nel 1328, fu Vicario Imperiale e Duca di Lucca dal 1316 alla morte. Fu un Capitano di Ventura di straordinaria fierezza, è ricordato nell'inferno di Dante, tra i più pericolosi avversari di Firenze, e per aver imperversato mettendo a ferro e fuoco gran parte della Valle dell'Arno. Fu Guelfo Bianco e tenne sotto scacco Firenze per diversi mesi, in un assedio serrato in una campagna che coinvolse città quali Prato, Calenzano e Pisa. La sua lapide è conservata presso S.Pietro in Vincoli a Roma.
All'epoca, l'arme dei Castracane annoverata "troncato d'azzurro e d'argento, il primo al levriero nascente del secondo, linguato e collarinato di rosso". Il modello è una ricostruzione ipotizzata sulla base delle armature del lignaggio del Castruccio, portate sul finire degli anni venti del XIV secolo. In particolare è ottenuta mediando dalla lastra terragna di suo figlio Giovanni, conservata in S.Francesco a Pisa, ed i bozzetti del volume "Guerre e Assoldati in Toscana, 1260-1364 (Ed. Museo Stibbert di Firenze), ed altre indicazioni suggerite da Marco Giuliani, studioso del medioevo toscano. Dall'inizio del XIV secolo la cotta di maglia si era andata rinforzando di piastre sagornate di cuoio e poi di metallo, particolarmente nei punti più critici dando luogo a gorgiere, corazze, bracciali, gambiere, ginocchiere, gomitiere o cubitiere. Ampliandosi sempre più fino quando nel Quattrocento, il cavaliere sarebbe stato sempre più coperto con corazze, bracciali, spallacci, ecc
Per la carenza di materie prime, in particolare in Italia, le protezioni
degli armati venivano spesso ottenuti con del cuoio bollito. Il cuoio così
indurito, poteva essere decorato e colorato in diversi modi ed ulteriormente
protetto con cera. Il tutto veniva al solito integrato con usberghi di
maglia di ferro di svariata lunghezza, gambali imbottiti, ginocchiere e
manopole in cuoio, rinforzato con elementi metallici. L'armamento veniva
completato con daga, spada dritta a una mano o una mano e mezza, e talvolta
anche come simbolo di comando alcuni utilizzavano la mazza d'urto. L'elmo
ipotizzato, una barbuta con camaglio pendente e protezione nasale, non
era infrequente e denota le influenze che tramite la "Marinara Pisa",
la Toscana riceveva dalle popolazioni arabe. Il modello proposto, mostra
una sopravveste a teli diseguali, spallacci di cuoio cotto, rotelline guardacubito,
ginocchiere in cuoio bollito e rinforzato, come pure per avambraccio e
parastinchi. Il cappuccio portato come copricapo poteva fungere da imbottitura
al di sotto dell'elmo.
Il soldatino ottenuto dall'autore per trasformazione di un pezzo di
serie scolpito da Adriano Laruccia (Pegaso) raffigura un cavaliere nell'armatura
tipica italiana del XIV secolo, documentante le molte trasformazioni in
atto nella tecnologia militare del periodo. Corazza, spallacci, cannoni,
schinieri ed altre protezioni erano in cuoio bollito e decorato. L'elmo
in particolare, è antesignano delle celate movibili. Si tratta di
un bascinetto con camaglio integrato da una visiera alzabile, guarnito
con un cimiero a stella. Esso è ispirato ad una pietra tombale conservata
presso la Cattedrale di Salerno (epoca angioina) e
l'effigie araldica è tratta da alcuni affreschi conservati nelle
sale del Comune di Siena, ed incertamente attribuita ad un avventuriero
o mercenaria di probabile origine Campana.
La miniatura raffigurata, è una trasformazione riproducente una probabile tenuta indossata dal "Conte Verde" durante una delle sue imprese. Egli infatti partecipò sia alla guerra dei cento anni, sia a molteplici tornei. Per motivi non certi, è noto che Amedeo VI fosse particolarmente affezionato al colore verde, e nonostante la casata, che presumendo essere imparentata con i duchi del Sacro Romano Impero, avesse per emblema un'aquila nera in campo oro, detto Savoia antico, e nonostante la famiglia fosse già stata insignita dal Potere Pontificio della croce bianca in campo rosso, (Savoia moderno) per aver partecipato alle crociate, egli amava vestire il verde. È quindi così ipotizzata la sua tenuta.
Dato il periodo di transizione, che dalla cotta di maglia completa del
XII secolo andava verso la corazzatura metallica completa del XV secolo,
è probabile che l'armatura consistesse in una maglia di ferro su
imbottita, cannoni metallici sugli avambracci, oppure in cuoio bollito,
mentre schinieri, ginocchiere e calzari potevano già essere metallici.
Il bascinetto con camaglio pendente sulle spalle completavano quasi certamente
la protezione per il capo.
Come detto negli ultimi tre secoli del medioevo, l'Italia era continuamente pervasa da guerre tra le diverse città stato in cui era divisa. Conseguentemente, per molti uomini l'arte della guerra era da considerarsi una professione, per la quale giovani di molte famiglie nobili, venivano addestrati ed educati. In questo clima si misero in luce molti condottieri , mercenari e nobili cavalieri. Tra questi viene segnalato in diversi scontri, al servizio della Serenissima, il giovane Jacopo della famiglia De' Cavalli.
La miniatura è ottenuta per elaborazione e trasformazione di
un pezzo Pegaso, e riproduce il cavaliere come rappresentato in un dipinto
conservato presso il Palazzo Ducale di Venezia. Questi indossa una cotta
di maglia al di sotto della veste araldica, bracciali a piastre, gambali
in cuoio conciato e colorato rinforzato con chiodature. L'armamento, completato
da ginocchiere e schinieri in ferro, è caratteristico di molti nobili
mercenari dell'epoca presenti in Italia. Infatti dopo i primi tedeschi,
seguirono avventurieri di diverse origini, particolarmente durante i periodi
di tregua della guerra dei cent'anni, durante i quali molti cavalieri rimanevano
"disoccupati" e recuperavano mettendosi al servizio dei casati
italiani. Uno per tutti Jhonn Hawcksn noto a firenze come Giovanni Acuto.
Particolare accenno merita l'elmo, sormontato da un cimiero raffigurante
una testa di cavallo, che è soltanto un esempio delle variegate
forge che i copricapi potevano assumere nelle occasioni di rappresentanza
come feste e tornei. Caratteristica era in Italia l'usanza dell'incatenatura
delle armi da offesa al petto. Le armi di Jacopo, come intuibile erano
un cavallo bianco rampante in campo rosso.
Il 25 ottobre 1415, in uno degli scontri più famosi della Guerra
Dei Cento Anni, l'armata inglese di Enrico V sconfisse i Francesi, che
secondo le cronache del tempo era superiore in numero, per almeno il triplo.
I nobili di Francia nell'occasione, condussero un attacco scriteriato nei
confronti della fanteria inglese, che sfruttò al meglio i vantaggi
di un terreno reso molle dalla pioggia e dell'arco lungo. Nonostante l'esito
della prima carica di cavalleria, in preda alla foga ed all'ardore, i francesi
si lanciarono in un secondo attacco, investendo i compagni in ritirata
o feriti, costringendo inoltre gli inglesi, per poter riprendere la pugna,
ad uccidere i cavalieri prigionieri, nonostante il riscatto ricavabile.
I principali artefici della vittoria
furono proprio gli arcieri, che come già cinquant'anni prima a Crecy
e poi a Poitieres, si distinsero nel combattimento corpo a corpo, per l'ardore
e la fedeltà al loro Re, ma principalmente risultando devastanti
nel tiro a distanza, grazie alla pioggia di frecce che lasciavano ricadere
sulla cavalleria in avanzata. Il loro abbigliamento, che peraltro non era
molto diverso da quello dei fanti di tutta Europa, era povero e molto spesso
il meglio delle protezioni del corpo potevano consistere in un corsetto
di cuoio. Deposto l'arco, combattevano con mezze spade, mazze, pugnali,
scuri ed altre armi più o meno improprie, derivanti da attrezzi
di lavoro dei campi. L'elmo poteva essere una sorta di bascinetto, una
cervelliera o un semplice caschetto di cuoio, altri fanti o balestrieri
potevano portare, non avendone intralcio nel tiro dell'arco, un "Chapel
de fer", un cappello metallico a falde larghe. Vestivano brache a
due gambali separati, camicia, ed una casacca che nel caso di Agincourt,
recava il simbolo distintivo dell'Inghilterra, la Croce di S. Giorgio.
Tale pezzo ottenuto per elaborazione di un pezzo Soldier, può essere
preso ad emblema dell'inizio della decadenza della cavalleria che, pur
avendo sempre pagato tributo agli arcieri ed ai balestrieri, iniziava a
segnare il passo contro le fanterie più disciplinate e meglio organizzate
che in passato. Nell'occasione di Agincourt gli Inglesi ebbero la meglio
in virtù della capacità anche dei cavalieri di combattere
adeguandosi alle esigenze della fanteria, la quale agli ordini del Gran
Maestro degli Arcieri sir Thomas Erpingham, si asserragliò dietro
siepi di palizzate infisse nel terreno attendendo la carica francese.
Il modello di serie prodotto dall'Andrea, si è facilmente prestato
alla tecnica della lucidatura del metallo che restituisce l'effetto lucente
dell'armatura, particolarmente realistico. Il soldatino testimonia fedelmente
una tipica armatura all'italiana del XV secolo.
Le armerie italiane, avevano raggiunto pressoché la perfezione,
e producendo su commissione di molti principi e nobili esportarono in tutto
l'occidente. Armature dei "Missaglia" sono state ritrovate in
tutta Europa. Gli artigiani del tempo erano riusciti a realizzare elementi
di tale perfezione, che pur ricoprendo pressoché totalmente il corpo,
consentivano tutti i movimenti, e nonostante il peso, che raggiungeva i
30-50 Kg, si poteva montare a cavallo e combattere. Caratteristico dell'iconografia
dei manufatti italiani erano l'elmo cosiddetto a becco di passero, ovvero
un casco a più flange provvisto di una visiera movibile con la possibilità
di fissaggio in diverse posizioni, sormontato da cimieri piumati di molteplici
fogge e colori. Talvolta la corazza era guarnita da una veste araldica
del casato del cavaliere. Al di sotto dell'armatura vera e proprie, guarnita
di spallacci e rotelle per parare colpi diretti anche in luoghi accessibili
in seguito a particolari movimenti, la protezione si completava con maglie
di ferro e imbottite.
Il modello di serie prodotto dalla Pegaso, è stato ridipinto
nei colori araldici dei Castelbarco, una nobile famiglia di Trento.
È probabile che le zone del trentino
come documentato per quelle del Tirolo, fossero influenzate dalle mode
tedesche. Per questo motivo è stato scelta la rappresentazione con
armatura nel così detto stile gotico. Si tratta di un'armatura a
piastra in voga nell'Europa del Nord, con finiture accentuate e spigolose,
provviste di elmi con visiera mobile e spioventi larghi. Ciononostante
molte di queste armature erano di produzione brianzola.
Il figurino raffigurato, è
un autocostruito ispirato a diversi dipinti del Carpaccio. Rappresenta
un tipico fante del periodo a cavallo tra il XV ed il XVI sec. Questo è
protetto sul corpo da una brigantina, un giubbotto di cuoio conciato e
colorato nei cui strati di imbottitura erano inserite delle piastre metalliche
di rinforzo, fissate al corsetto con delle borchie. L'elmo, una barbuta
all'italiana con protezione nasale, è caratterizzato dalla decorazione
di un cercine ed una piuma, tracce tipiche della contaminazione culturale
assorbita dalla Serenissima durante tutto il medioevo ed il rinascimento,
in seguito ai continui scambi con il medio oriente. L'armatura difensiva,
è completata da una maglia di ferro di comode misure, sempre di
influenza orientale, delle manopole a piastre, e da schinieri in metallo
a due embrici fissati da fibbie di cuoio al di sopra delle brache di tela.
Queste peraltro, di foggia e colorazione tipicamente italiana. L'armamento
offensivo è infine costituito da spada dritta, e da un'alabarda,
con manico misto in acciaio e legno chiodati.
Nel modello della EMI-Miles, viene riassunta la fine di un'era. Verso la fine del XV secolo l'Italia settentrionale e l'Europa centrale, vennero sconvolte da numerose guerre che videro prevalere le fanterie svizzere o tedesche. In particolare questo impugna ed osserva fiero, il trofeo di guerra guadagnatosi in uno scontro contro i Cavalieri del Toson D'Oro, l'ordine cavalleresco istituito da Filippo il Buono. Per questa ragione e per la presenza dell'archibugio, una delle prime armi a fuoco portatili (a miccia), il figurino rappresenta la fine della Cavalleria, così come romanticamente intesa: un modo di vivere, di essere e di combattere. I "Lanzi", come tradizione vuole, vestivano colori sgargianti ornati di fronzoli e drappi, in cui erano ritagliate le giubbe, le camice ed i pantaloni. I calzettoni, pure variopinti erano tenuti da un nastro, il cappello qui in cuoio, era usualmente ornato di piume sgargianti. Sembrerebbe che il loro modo di vestire tragga origine proprio dal loro carattere, rozzo e crudele. Infatti, erano spesso contadini provenienti dai "Landes" della Germania Meridionale, e per il loro mantenimento erano spesso dediti al saccheggio. In tali occasioni venivano in possesso di tessuti preziosi che reimpiegavano alla meglio, facendone nel tempo un costume tradizionale il tempo. Erano sempre armati di una spada che molte volte usavano come picche, ed infatti spesso erano provviste di manico a due mani. Il corsetto era spesso di cuoio ma non mancavano casi di corazzine metalliche, come in questo caso. I Lanzichenecchi, abili nell'uso della picca e dell'alabarda, furono tra i primi ad introdurre tra le fila, o meglio tra le "maniche", veri e propri corpi di archibugieri. Questi caricavano l'arma con polveri tenute in una fiaschetta portata a tracolla. L'accendevano per mezzo di una miccia che portavano sovente stretta in vita, come una cinta. L'imprecisione del fuoco, la lentezza di ricarica e la pericolosità per gli stessi utilizzatori, fece sì che in principio l'archibugio fosse relegato a spaventare la prima carica di cavalleria. Per la prerogativa di colpire l'avversario a distanza, fu, come già prima per la balestra, un'arma disprezzata per molto tempo da nobili e cavalieri, e l'uso venne così ridotto ai soldati di linea per molto tempo, prima di venire utilizzata in massa, e soprattutto anche dalla cavalleria.
mandate una e-mail a Stefano Castracane- scastra@tin.it
Ritorno alla Pagina dei Sabatini
Ritorno alla Pagina di Villa Santa Maria