SE UNA NOTTE D’INVERNO UN SOLDATINO...

Testo e immagini di Stefano Castracane

La maggior parte delle persone che guardano i soldatini della mia collezione si domanderanno certamente cosa ci trovo nel realizzarli e nel disporli in vetrina. Qualcuno azzarda anche la domanda. Altri rispettosamente saltano la prima e intuendo un retroscena culturale, mi chiedono dove trovo la documentazione utile per le ricostruzioni.

È così che mi rendo conto che per me, ogni soldatino è come un libro aperto, dove rileggo sia i contenuti storici che i pensieri e le atmosfere vissute durante la realizzazione. A volte ricordo addirittura gli argomenti ascoltati alla radio mentre dipingevo. Forse questo è vero per ogni modellista. Ma soprattutto credo sia vero che ogni soldatino ci fa immaginare una probabile storia di vita del personaggio raffigurato. Ovviamente per ogni osservatore le emozioni saranno diverse. E quello che più spesso mi chiedo è se ai miei colleghi soldatinai, arrivi quanto voglio loro trasmettere. Se rileggono le mie intenzioni. E se io riesco a percepire le loro ammirando i loro modelli.

È da quest’intenzione che è nata l’idea per l’articolo. Per condividere i sapori di un mio soldatino con quei quattro che leggeranno (l’articolo ed il soldatino). Si perché quello che troviamo raramente in un articolo di ogni rivista, è cosa ha realmente spinto un modellista a realizzare quel modello, cosa ci vede, e cosa vorrebbe che noi ci vedessimo osservandolo. In fondo il piacere di ogni soldatino inizia prima ancora di acquistarlo. Forse c’è già una lista della spesa nell’inconscio che attende di essere spuntata.

Quel piacere inizia quando, magari di venerdì a pranzo, pregustiamo il rapido abbandono del lavoro per abbandonarci ad un tranquillo fine settimana senza programmi. È in quel momento che si decide di passare in negozio. In quel momento il soldatino è già iniziato. Non lo abbiamo ancora scelto, non lo vediamo, non lo tocchiamo. Non l’abbiamo ancora neanche pagato! Eppure è già dentro la nostra mente. Per quelli come me, modellisti collezionisti, l’arrivo in negozio è ricco di insidie. Nonostante avrei potuto scegliere tra quelli già acquistati, già catalogati nei cassetti per periodi, per probabili temi collezionistici, sento il bisogno di un soldatino nuovo, mancante. Che mi dia quell’emozione e quell’entusiasmo in grado di spingermi ad uscire di corsa dal negozio per andare a casa, giungere prima di mia moglie, e poter aprire la scatola delle lime appena entrato.

Ora, dopo aver guidato, incurante del traffico immerso tra i miei sogni, sono lì.

Dinanzi alla vetrina.

C’è sempre un soldatino nuovo a tentarmi.

Ce ne è sempre un altro, che è lì e mi guarda sapendo che “non è il mio tipo”.

Mi faccio coraggio, sono determinato. Entro.

Quello che porterò a casa oggi, sarà da dipingere subito. Dovrò scegliere bene per conservare la possibilità di terminarlo nel week-end.

Troppo spesso mi son tradito! Uno come me, nel limbo tra bravi e principianti, tra competenti ed inesperti, è sempre vittima della tentazione del “trasformismo”. Ma quelle migliorie (apparenti) richiedono tempo. E questa volta il piacere non dovrà essere interrotto. Non voglio rimanere una settimana con l’ansia di terminare.

Quindi, forte dei miei propositi affronto sdegnato la prima vetrina, quella dei brutti ma collezionabili. Guardo dritto, senza sbirciare nel “cestino di Alberto”, quello con tutti i pezzi in offerta ma dimenticati da Dio. Non mi faccio tentare da libri, riviste e accessori vari. Non voglio che questo pezzo che comprerò, magari bellissimo, non sia di quelli che magari scambio, perché indifferenti alla mia collezione che, ambiziosa, vuol documentare l’evoluzione dell’armatura medievale italiana. Quindi, salto a piè pari i modelli di Leibovitz. Punto dritto alla vetrina dei medioevali in 54mm. Lì di fronte, ogni volta ho un tentennamento. Un cavaliere sta pur sempre a cavallo! E quello è bellissimo! Ma significa raddoppiare costi e soprattutto il tempo. Così rifletto. In lotta con i miei propositi alla fine vinco la tentazione del cavallo con gualdrappa, e sarà pedone.

Poi c’è da sconfiggere una serie di rimorsi. Quelli dei modelli che non ho acquistato precedentemente, ma non ancora realizzati, che sono pure nello scaffale a ricordarmelo, quelli che non ho comprato ma che so che comprerò, quelli che sarebbe bene che non manchino alla collezione. Quelli scolpiti da Laruccia che comprerei comunque perché la prossima vita farò una collezione di Romani.

Ed infine l’ultimo schieramento: quello dei belli, da comprare a tutti i costi, “storicamente conformi”, con le pose accattivanti e pieni di possibili variazioni araldiche. Dovrò scegliere tra questi.

Contro ogni previsione sono ancora molti, farò una prima scrematura favorendo le novità. Poi, solo dopo averli ridotti almeno ad una metà, dovrò escogitare un criterio. Ed eccomi silenzioso in rassegna di quei cavalieri. I più hanno pose statiche, altri sono in combattimento. Ed ecco che affiora il primo criterio. Quello del rigore. I cavalieri, se combattevano, lo facevano certo a cavallo. Così penso che quelli in posa da “mo’ t’ammazzo” non sono proprio fedeli al lignaggio del tipo. Un cavaliere combattente appiedato non è un errore, ma non mi convince, seppure venivano spesso disarcionati. In altre occasioni documentate si combatté per necessità a piedi. Ma in tali casi o si hanno gli elementi per attribuire un’araldica di un tizio realmente partecipante alla battaglia o tocca magari spappardellare un cavallo in terra, oppure creare una faticosa ambientazione con miriadi di particolari che giustifichino l’appiedamento. Pavesi, archi (se non arcieri) frecce, scudi ammaccati, feriti…, l’arredo della battaglia in pratica.

Tutte cose che richiedono tempo. Quello che mi manca. Insomma traduco per i “napoleonici”: o così, o sarebbe come mettere un sergente dei volteggiatori su un cavallo da corazziere, o un fucile in mano ad un ufficiale. Non quadra la tipologia, salvo episodi particolari e noti. Già, il “tipo”. La tipologia delle armature, dell’abbigliamento. Anche questo in una collezione storica non va trascurata. Anzi è fondamentale.

Così si profila un soldatino ideale, un signorotto appiedato, in posizione d’attesa, completo di tutto punto, con un’armatura “datata”.

Ma la mia collezione ha già i pezzi fondamentali, quelli cardini in un’evoluzione storica. Mancano i “pupazzi” ricchi di quelle sfumature che raccontino una “proiezione del divenire” (qui non so se sarò compreso da tutti e quattro i lettori, ma non si preoccupino, non è colpa loro).

Ovviamente è il classico soldatino ideale che ogni soldatinaio ha in mente (spesso solo lui). Quello che lo metta in condizione di raccontare tutto il suo sapere al malcapitato di turno che quella sera, in attesa che venga servita la cena, degustando l’aperitivo davanti alla vetrina, farà la domanda sbagliata. (si potrebbe dire che siccome quello non è mai arrivato, oggi tocca a Voi, miei quattro-lettori-quattro). Quello che non ho ancora detto, ma che sarà decisivo nella selezione, è che tale soggetto deve essere inseribile in una vetrina dedicata alle famiglie romane del Primo Giubileo del 1300, in occasione della Mostra del Soldatino da Collezione che si terrà a Roma, nel 2000.

Mentre penso tutto ciò, mi accorgo che qualcuno ha posato sul banco un soldatino che credevo non fosse disponibile. Eccolo lì. È proprio lui (non era il soldatino ideale ma in quel momento lo credetti). Un Pegaso scolpito da Balloni: il “Cavaliere Senese”. Posa statica con una mano sui fianchi, l’altra a sostegno della lancia provvista del “didascalico” pennoncello. Una bandierina che magari non reca l’arme del cavaliere ma di una fazione, un regnante servito. In questo caso potrà recare le insegne papali. Una delle due gambe è leggermente sollevata. Di realmente senese ha solo il nome e la probabile fonte iconografica della zona. Quasi sicuramente gli affreschi di Volterra datati 1290 circa. Ma in realtà geograficamente collocabile in gran parte dell’Italia. Epoca di riferimento quindi: fine XIII secolo, inizio XIV. Dal punto di vista dell’armatura: “l’inizio del Divenire”. Per “divenire” intendo un insieme di elementi che possano accennare i futuri sviluppi dell’armatura negli anni successivi. Infatti durante la prima metà del XIII secolo le poche innovazioni tecniche, o per meglio dire tipologiche, nell’armatura del cavaliere erano state l’elmo chiuso, una maglia di ferro su cui veniva indossata una veste recante le insegne araldiche ed uno scudo. L’elmo, dalla cervelliera (una sorta di semisfera) del XII secolo si era col tempo provvisto di protezioni del viso, provviste di fori di areazione che divenendo sempre più grandi trasformarono l’elmo in chiuso, pressoché cilindrico, quello cosiddetto pentolare. Per contro lo scudo si rimpiccolì rispetto a quello a mandorla dei due secoli precedenti, divenendo pressoché triangolare. Con la seconda metà del secolo si aggiunsero principalmente delle varianti stilistiche, piuttosto che vere e proprie. Elmi chiusi ma ogivali, scudi magari rotondi (influenze orientali delle Crociate), vesti autoprotettive in cuoio imbottito, cotte d’arme sempre più vistose resesi necessarie per distinguere i cavalieri dal volto celato dall’elmo, ma nulla rispetto a quello che sarebbe accaduto nel corso del XIV secolo, al termine del quale il cavaliere si ritrovò completamente rivestito di piastre di acciaio. Uno dei primi passi fu la possibilità di “far vedere” il cavaliere (e di farlo respirare) quando non era prioritario essere protetti in volto. Fu così “inventata” la celata o visiera. Trattasi di elemento sollevabile dell’elmo che offre la possibilità di scoprire il volto. Il “nostro” poi, porta anche un cimiero. Questo era già in voga precedentemente, soprattutto in parata o in torneo, ma offre uno spunto per un successivo commento. Non è grandissimo e non è di tipo unicamente attribuibile a pochi soggetti, come per esempio la testa di un animale.

In più è ricco di “divenire”. Infatti è provvisto delle prime piastre di protezione per le braccia che venivano allacciate sopra la maglia di ferro. In Italia erano quasi sempre in cuoio bollito. Un trattamento che ne otteneva un forte irrigidimento. Queste nel nostro caso sono anche rinforzate con del metallo. Doveva appartenere ad una ricca famiglia! Così compiuta la scelta, eccomi già a sfogliare il librone delle nobili famiglie romane. Dovevo essere attento. Dovevo trovare una famiglia che certamente fosse già potente al tempo di Bonifacio VIII. La posa si presta a ritrarre un cavaliere che fornisse una sorta si servizio di sicurezza, lungo il percorso di un’ipotetica manifestazione giubilare, che so, una processione da S. Pietro a S. Giovanni. Gli armigeri del signore dovevano stare a debita distanza, quanto basta per non essere inclusi nella basetta.

Le opzioni tra i blasoni sono diverse, ma l’attenzione mi cade sulla Famiglia Cenci. Questa ha l’arme merlata in banda di rosso e d’argento con tre crescenti bianchi nel primo ed altrettanti invertiti nel secondo. Traduco: lo scudo araldico è rosso e bianco, diviso lungo una diagonale ideale che scende, guardando lo scudo, dall’alto a sinistra in basso a destra. La diagonale in questo caso non è netta, ma una linea ideale lungo cui si evolve la suddivisione dei campi, che ha la sagoma di una merlatura. I crescenti non sono altro che tre mezze lune bianche in campo rosso e rosse quando su sfondo bianco. I crescenti divengono lo spunto per non rinunciare al cimiero del kit di serie. Infatti questo è praticamente un ventaglio provvisto di sei sfere alle estremità. Potranno richiamare i sei crescenti dell’araldica dei Cenci.

Il dilemma è la veste. Non è ancora corta, per il 1300 va bene. Ma è provvista di uno spacco anteriore ed è piena di pieghe! Un tormento per la “merlatura” diagonale, che inoltre dovrebbe interrompersi sullo spacco. il risultato sarebbe dubbio dal punto di vista della chiarezza. In questi casi si può sempre invocare l’usanza italiana di recare l’araldica su uno scudo di stoffa che veniva cucito sulla vesta all’altezza del busto. E dovrà trovarsi sia sul petto che sulla schiena. In fondo la principale funzione dell’araldica era pur sempre quella di render riconoscibile il cavaliere sul campo di battaglia, quindi da fronte e da tergo. Naturalmente sarà preferibile per la veste, un colore che lasci risaltare il blasone.

Tra tutti il verde si presta più di altri per una ragione storica e di lignaggio. Si sa che come per antonomasia il cavaliere aveva il pomo della spada e gli speroni dorati, così il colore verde era il colore del “cavaliere”. Poteva essere quindi probabile che in occasione di cerimonie civili, o quasi, fosse il colore dei suoi abiti. Ed il nostro cavaliere è, tutto sommato, in servizio d’onore.

Mentre mi sento pronto per iniziare mi accorgo che il mio cavaliere non è per niente rigoroso, o “ideale”. Infatti lo scudo dello sciagurato è posto in terra! Questa è un’eventualità più che rara, sciagurata. Lo scudo era non solo un’arma, ma anche l’emblema stesso del casato. Mai e poi mai un cavaliere l’avrebbe abbandonata in terra. Era un segno di resa come il getto della spada! Eppure lo scultore ce lo propone così. Cerco di trovare una soluzione. Porlo sulla schiena con la cinghia a tracolla, ma il peso della cinghia dovrebbe notarsi tra le pieghe della veste, e sarebbe necessaria una bella mano di milliput per evidenziarla. Tempo che non posso spendere, a rischio di ottenere un risultato mediocre. Provo a porre lo scudo appeso alla mano che sostiene la lancia. Ma dato il peso anche questa soluzione la trovo forzata. Così mi arrendo. Potrei optare per l’ipotesi secondo cui lo scudo lo porta lo scudiero, non “inquadrato” nella basetta. Oppure, come deve aver pensato il Balloni, lo scudo sarà in secondo piano a raccontarci della famiglia del cavaliere. Non rigorosa come ipotesi, ma almeno si valorizza la figura e la scultura del modello. Con buona pace della filologia.

Il cimiero sarà dorato con le sfere smaltate rosse e bianche, alternate, con la sommità dorata, al fine di rievocare le mezze lune dell’araldica. Sarà lucido. Il cimiero era un elemento di pregio dell’elmo e veniva avvitato sulla sommità per farsi notare, mostrarsi magnifici. Meno che mai sarebbe stato opaco.

Anche lo scudo, nonostante le molte polemiche nei concorsi sarà satinato, se non lucido. Ciò per documentare che la pelle colorata veniva protetta con la cera, anche al fine di fissare il colore, che molto spesso era a base di terre e gesso.

Siamo al momento della pulitura del modello, il montaggio e finalmente dell’applicazione del primer, che darò a mano con il pennello, per lasciare vergini le superfici in metallo dell’elmo, delle ginocchiere e della cotta di maglia. Queste infatti le ho lucidate a vivo e le rifinirò con una velatura ad olio, che le proteggerà anche dall’ossodazione.

Soltanto quando asciutto il primer potrò procedere alla pittura. Ora posso solo studiare il gioco delle ombre esaltate dal grigio del fondo.

Inizio a studiare possibilità per rendere in modo diverso le superfici in cuoio delle piastre e delle cinture, della pelle che ipotizzo di camoscio dei gambali. Così le protezioni delle gambe e delle braccia appariranno più lucide perché anch’esse, come lo scudo, cerate. Mentre le cinture saranno un po’ più usurate. Le pelli scamosciate invece opache, ma con esaltazioni delle pieghe in luce.

Così, magari accompagnato dalle voci nottambule della radio, con un bicchiere di vino accanto, potrò finalmente iniziare ad accarezzare le superfici del cavaliere col pennello, dando vita alle luci e profilando i volumi. Potrò abbandonarmi ad immaginare il clamore della folla costeggiante la processione, l’incedere dei pellegrini, i loro indumenti logori, le nenie liturgiche. Lo sbattere degli stendardi al vento, il ciarlìo degli usberghi faranno l’eco. Sentirò sulla pelle le polveri della strada e l’odore di sudore sotto l’imbottita del nostro guardiano, che fiero e devoto, offrirà i sui servigi al Papa ed al Signore.

Poi una voce mi richiamerà al sonno, quando prima di addormentarmi, strizzerò un occhio ai miei quattro-lettori-quattro, immaginerò già il prossimo soldatino.

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